IX

LE «OPERETTE MORALI»

Cosí la genesi delle Operette morali, alla maggior parte delle quali il Leopardi adibí tutta l’attività del formidabile anno 1824, si prospetta riprendendo e modificando gli anticipi di «prosette satiriche», già programmate e in parte scritte in anni precedenti[1], ben diversamente da quella di un momento del «puro intelletto» (secondo lo schema desanctisiano) o da quella di una semplice elaborazione artistica e mitica del materiale e delle posizioni intellettuali acquisite[2], configurandosi in un’eccezionale collaborazione di intelletto, sentimento e fantasia (validissima ed essenziale nello sviluppo delle posizioni avviate nello Zibaldone, specie nella fase critica del ’23, e validissima ed essenziale nello sviluppo della sua prosa poetica) collaboranti nel senso di un’esperienza in progresso, personale e storica, in una battaglia ideologica avvalorata dal pensiero e dalla concretezza poetica, con un loro sgorgo contemporaneo e inseparabile.

Né l’assenza nelle Operette di precisi riferimenti alla situazione italiana del tempo manca di una specie di contemporanea piú precisa attenzione a quella, nell’acutissimo, tumultuoso e spesso paradossale Discorso sopra lo stato presente del costume degli italiani, fortemente fondato sulla costatazione che la condizione di minorità dell’Italia di fronte ad altre nazioni europee è dovuta anzitutto alla mancanza di una pubblica opinione e di una vera «società», alla perdita dei pregi della «natura» e al non acquisto di quelli della «civiltà» (sicché essi non hanno «costumi», ma «abitudini» e vivono una vita gretta, dominata dal «cinismo», dall’«egoismo», dalla «misantropia») che va promossa e diffusa «piú che si possa», «come rimedio di se medesima da una parte e dall’altra di ciò che avanza della corruzione estrema e barbarie dei bassi tempi».

Sicché la stessa battaglia per la verità delle Operette morali, mentre sviluppa e definisce, con la forza congiunta dell’analisi intellettuale e della evidenza poetica, il processo piú profondo delle posizioni leopardiane – frutto di un’intera esperienza che si fa, nella diagnosi piú esauriente, aggressiva e polemica – non mancherebbe, attraverso il suo legame con il Discorso, di un possibile nesso con la stessa situazione italiana e la ricerca (per ora piú contraddittoria e sfasata) di una fondazione intera di civiltà e di società rinnovate dal coraggio morale della verità e dalla diagnosi spregiudicata della situazione umana.

D’altra parte è grave errore – pur non accettando la schematizzazione troppo rigida, ma molto stimolante del celebre saggio del Gentile[3] – considerare le Operette come prodotti fra loro separati, sia come singole intuizioni mitiche-poetiche sia come corollari sporadici del pensiero dello Zibaldone, e perdere cosí l’attrito dinamico del loro sviluppo, il crescere o flettersi della loro forza poetica in relazione al crescere o al flettersi della interna pressione dinamica intellettuale-fantastica.

E deve essere chiaro che nel loro farsi concreto la stessa poetica che ad esse presiede si complica e si chiarisce, al di là delle sue prime intenzioni piú letterarie, ironiche e «lucianesche», con un’alacrità di tagli, di impostazioni, di soluzioni stilistiche che corrispondono alla coerente alacrità delle posizioni e della loro pregnanza. Donde anche la difficoltà di un’unica e livellante definizione del loro «stile», specie se la si impianta su di un «distacco sorridente» (per giungere sino a fare delle Operette gratuite «suites linguistico-musicali»), scambiandone una componente per tutta la sua complessa fertilità di toni e di moduli costruttivi ed espressivi, sviluppati, ripeto, in un attrito dinamico e in una disposizione che – lontana dalle forme piú «ardite e concise» dello stile delle canzoni del ’21-22 e tesa ad una temperanza e ad un dominio di ogni retorica e di ogni enfasi – non manca mai di un fondo di risonanze drammatiche, di slanci affettivi e aggressivi sin alla irruenza violenta e alla suggestione macabra, ossessiva, quasi misteriosa, della voce del nulla, della «noia», dell’universo, deserto di uomini, o esso stesso destinato alla dissoluzione e alla totale scomparsa.

Ché questo va detto a scanso di equivoci e fraintendimenti frettolosi[4]. Certo le Operette morali rappresentano una fase in cui il Leopardi cerca un tono medio di base, piú adatto alla sua operazione intellettuale-artistica (fino a slittamenti in momenti di maggior freddezza, di ironia piú libresca, di rabesco sottile e sfiorante la «prosa illustre», e viceversa ad acquisti supremi di toni misteriosi e suggestivi di «musica altamente malinconica», di piú ragionata e quasi scorporata lucidità impalpabile e come apparentemente raggelata), ma è innegabile, a mio avviso, che, come tale tono medio è a sua volta sostenuto e percorso sia da un drammatico sviluppo di pressione problematico-ideologica (mai ferma e tutta preliminarmente consolidata) sia da un’inerente tensione affettivo-poetica, che tanto piú supera quel tono medio e lo innalza in forme piú appassionate e aggressive quanto piú quella pressione ideologica si sviluppa e consolida fino a punte drammatiche e «paurosamente» drammatiche, di tale consistenza totale da rifiutare (dall’alto di quei risultati altrimenti inspiegabili) una definizione generalizzata del tono e stile di «distacco sorridente» e di «suprema indifferenza».

Come non riconoscere infatti già nel grandioso mito filosofico d’apertura, la Storia del genere umano, e nello svolgersi favoloso dei suoi cicli, la pressione malinconica e la partecipazione e compassione per la tragica situazione esistenziale dell’uomo, frutto – si badi bene – non di un suo errore, ma di un errore degli Dei e della natura, che l’hanno creato con l’istinto prepotente della felicità e l’hanno poi deluso su questo punto essenziale invano affaticandosi – fra sorpresi e irritati per gli strani comportamenti di questa loro singolare creatura – di rimediare, con stratagemmi tutti inutili e parziali, alla sua scontentezza e volontà di autodistruzione, fino al rifiuto della sopravvivenza della specie e dell’amplesso creativo e allo sconsolato e disperato gesto di Deucalione e Pirra che si sottopongono riluttanti alla ricreazione della loro schiatta dopo il diluvio, solo con lo stanco e forzato lancio delle mitiche pietre?

Né la poeticissima eccezione finale dell’amore che in creature d’eccezione, e se corrisposto, può ricreare un labile sogno di «beate larve» e illusioni, rompe davvero la legge generale drammatica che presiede alla vita degli uomini già avvertiti come incolpevoli vittime e non scellerati autori della propria calamità.

Perché, come dice una frase essenziale di questa prima operetta: «s’ingannano a ogni modo coloro i quali stimano essere nata primieramente l’infelicità umana dall’iniquità e dalle colpe commesse contro agli Dei; ma per lo contrario non d’altronde ebbe principio la malvagità degli uomini che dalle loro calamità»[5].

Ed ecco un punto fondamentale per la comprensione del contributo attivo delle Operette nello sviluppo leopardiano: la satira e la diagnosi della malvagità e stoltezza degli uomini, che soprattutto si articola nel primo gruppo delle Operette, non è tanto un attacco misantropico (pur avendone sfumature ed aspetti) quanto una lotta contro tutte le credenze e le ideologie boriose e ottimistiche, che esaltano la sorte privilegiata degli uomini e della loro perfezione o perfettibilità o prospettano la felicità ultraterrena e la salvezza fideistica dell’uomo di contro alla sua colpevole corruzione e alienazione da uno stato angelico originario, e che, a ben vedere, sono come la riprova della disperata infelicità umana portata ad evadere dalla sua realtà, creandosi favole e sistemi superbi o vanamente consolatori. Prima con mano piú leggera e frizzante e con toni ironici (che a volte giungono ad una sorta di spettrale comicità surreale e a volte invece scendono a scherzi piú striduli e letterari) la mitizzazione cosí profonda e poetica della Storia del genere umano si trasforma in rapidi dialoghi che ribadiscono la decadenza della vitalità e della virtú nel mondo moderno (Dialogo d’Ercole e di Atlante, la Proposta di premi fatta dall’Accademia dei Sillografi, il successivamente rifiutato Dialogo di un lettore di umanità e di Sallustio), la moderna frivolezza vorace di mode e maschere (Dialogo della Moda e della Morte). Poi l’attacco passa piú a fondo contro l’assurda pretesa degli uomini che il mondo sia fatto per loro (Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo) e – entrando in una zona sempre piú ardente di problemi e di intuizioni – sottolinea, con voce di piú amara e fonda malinconia (nel Dialogo di Malambruno e Farfarello), il nodo tragico dell’uomo naturalmente desideroso di felicità e incapace di ottenerla (sicché la conclusione sarà che «assolutamente parlando» «il non vivere è sempre meglio del vivere») e ne accentua la gravità nella condizione di un animo grande, e perciò tanto piú infelice e desideroso di annullamento (Dialogo della Natura e di un’Anima). Mentre, attraverso il Dialogo della Terra e della Luna, l’assalto del ricercatore della verità contro le falsità vane e le ideologie surrettizie aggredisce il geocentrismo e l’antropocentrismo e squarcia il velo dell’ottimismo provvidenzialistico fino ad una specie di Weltschmerz, di dolore che coinvolge l’uomo e tutto l’universo. E ritorna, con una carica accresciuta, a irridere l’aspetto prometeico dell’orgoglio umano e della sua presunta perfezione (La scommessa di Prometeo, eccezionalmente alacre di movimento, di scene, di paesaggi tutti coordinati e adibiti poeticamente alla dimostrazione della stoltezza e malvagità umana in ogni stato primitivo e civile) e a ribadire ancora una volta (nel Dialogo di un fisico e di un metafisico) la persuasione della distinzione fra «esistenza» e «vita» (come fa il «metafisico» che ha saputo individuare i problemi superiori e superare l’attrazione del «comunque vivere» di cui è portatore gioioso e stupido il «fisico») e la decisa e non contraddittoria certezza che se la vita non è «vera vita» piena ed intensa, tanto migliore è la morte e che val piú un attimo di «vera vita» che un’esistenza lunghissima e tediosa: per giungere infine nel centrale e paurosamente drammatico Dialogo della Natura e di un Islandese ad affrontare direttamente il tema fondamentale della indifferenza della natura e della sua legge meccanicistica di mantenimento della materia attraverso la distinzione e le pene di singoli viventi, mentre in questo eccezionale dialogo consolida, con concentrazione e decisione superiori, il suo profondo e intero materialismo.

Ed è in questo grande capolavoro che meglio si possono dimostrare insieme il grande contributo delle Operette morali a conclusioni salde e mai smentite dal Leopardi, la loro natura di battaglia ideologica demistificatrice, la genesi della loro maggiore «poesia», che in questo capolavoro non nasce certo da una distensione e da un distacco sorridente, ma dalla pressione graduata e crescente, intensa, nuda e appassionata, di temi formidabili a cui ogni particolare stilistico, ogni vibrazione e «scherzo» di humour, ogni battuta dialogica, organicamente corrispondono, rinforzandone, con l’eccezionale fertilità della fantasia, la duttile energia di diagnosi, di accusa, di protesta, piú fortemente riassorbendo ed estremizzando le punte e le spinte piú aggressive dell’illuminismo e della sua stessa prosa didascalico-polemica. Ultima costatazione essenziale a capire il fecondo rapporto del Leopardi con l’illuminismo (non «carcere» del suo spirito «romantico», ma forza attiva della sua crisi dentro e contro il romanticismo) nelle sue zone piú materialistiche e in quelle derivate dallo stesso Voltaire piú critico e pessimistico, sfrondato energicamente delle sue conclusioni deistiche e del piú facile appello a cultiver son jardin, e fortemente risentito persino nella tecnica di accumulo rovinoso e ironicamente tragico delle sventure dei singoli, quale soprattutto si presenta in Candide. Sicché lo stesso giudizio sulla prosa aulica e cinque-settecentesca (fra Gelli e Gozzi) delle Operette va ben riveduto alla luce di questa potente utilizzazione della prosa polemica e dimostrativa illuministica e cosí tanto piú «moderna» di quanto a volte si è pensato, con la sua estrema lucidità rigorosa, con la sua appassionata tensione aggressiva, con la ricchezza di un estro di fondo disperato e lugubre. Nulla si sottrae allo sgorgo potente della narrazione dell’esperienza rovinosa dell’Islandese (un’esperienza di infelicità anzitutto fisica, legata alle stesse condizioni dei climi e delle stagioni), delle sue interrogazioni ansiose e terribili, delle risposte gelide e insufficienti della Natura, voce di una legge implacabile e ferma (la legge dello «scoiattolo» che non può non cadere in bocca al «serpente a sonagli»!), di una entità gigantesca e immobile, il cui volto «mezzo tra bello e terribile» evidenzia fantasticamente l’incontro di attrazione e repulsione del Leopardi di fronte a quella «matrigna» (una volta per lui madre benefica), mentre persino lo «scherzo» finale, con il suo estro ironico-feroce, è ben lungi da una conclusione tutta facilmente distensiva se si pensa che nel sopraggiungere dei leoni affamati che divorano l’Islandese, per morir poco dopo essi stessi nel deserto senza risorse di cibo, o nella alternativa ipotesi della tempesta di sabbia che soffoca e mummifica lo sventurato rappresentante degli uomini, vive realmente la definitiva risposta muta della Natura, la riprova della sua azione meccanicistica e indifferente al dolore dei viventi, nel silenzio pauroso che segue agli interrogativi dell’Islandese, impersuaso di quella legge enunciata dalla Natura e vanamente proteso a chiedere il perché e l’utilità di quella legge scellerata.

La realtà è cosí ed è sbagliata, ma immutabile, soprattutto non esorcizzabile e falsificabile mediante le ideologie religiose o filosofiche del «tutto è bene», del «migliore dei mondi possibili» o di un mondo cattivo e perciò necessitante la fede in un mondo migliore ultraterreno. Ché – nella misura piú meditabonda, malinconica e interiore dell’uomo grande e infelice costretto all’inazione e al sogno in una specie di dormiveglia tra lucidità e fantasticheria (il Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare)«il puro sentimento dell’esistere» si svolge nel profondo tema della «noia» che occupa tutto l’animo quando questo non può avere né il sogno, migliore del vero, né il piacere, ridotto a «desiderio non a fatto, un sentimento che l’uomo concepisce col pensiero e non prova, o per dir meglio, un concetto, e non un sentimento», e tuttavia al piacere aspira e invece conosce per esperienza solo il dolore e la noia trovando un effimero alleggerimento nel compenso illusorio del sogno.

Cosí – con una alacrità di meditazione e di poesia che possono sorreggere quasi contemporaneamente il ritmo stringente e drammatico del Dialogo della Natura e di un Islandese e quello malinconico, pausato e soavissimo del Dialogo del Tasso – il Leopardi definisce, al centro delle Operette del ’24, la sua complessa prospettiva di protesta e di esperienza ideologica ed esistenziale siglata nel Dialogo di Timandro e di Eleandro (posto poi, nell’edizione del ’26, come conclusione del libro e quasi sua apologia contro «i filosofi moderni») da un ben significativo riferimento a quei filosofi che «quaranta o cinquant’anni addietro» «mormoravano sulla specie umana» (e dunque i filosofi materialisti piú consequenziari nella spinta pessimistica dell’illuminismo), mentre ora le risorgenti tendenze spiritualistico-ottimistiche (di cui si fa interprete lo stolto Timandro) vanamente e pericolosamente rilanciano prospettive di perfezione o di perfettibilità dell’uomo in una specie di «mascherata» contro cui Eleandro, voce dello stesso Leopardi, trova i suoi accenti piú vigorosi invitando a «cavarsi le maschere» e proclamando la sua risoluta avversione ad ogni «simulazione e dissimulazione», specie negli scritti, tanto piú utili agli uomini quanto piú «poetici» e cioè capaci «movendo l’immaginazione» di lasciare «nell’animo del lettore un tal sentimento nobile, che per mezz’ora gl’impedisca di ammettere un pensiero vile e di fare un’azione indegna». Poesia e verità si aiutano e si complicano in una disposizione energica e dolente che si qualifica avversa, piú che agli uomini, alle ideologie che li ingannano e al «fato», autore della «infelicità necessaria di tutti i viventi».

Quanto lontano questo Leopardi – pur in una piega piú venata di alta malinconia e di disillusione dolente, e piú compassionevole che energicamente solidarista – dall’immagine misantropica e «reazionaria» di chi poté persino avvicinarlo al retrivo Monaldo! E quanto d’altra parte lontano da precipitose conversioni a una diretta ricostruzione positiva, quando invece tutte le Operette del ’24 si svolgono sul filo del «no» e in quell’approfondimento – or piú aggressivo, or piú dolente e malinconico – della verità della disperata situazione umana, base di successivi slanci eroici, ma per ora inclinata – pur nel fremere di tanta ansia di vita e di nobiltà – a smantellare gli inganni secolari e attuali dell’ottimismo e della boria religiosa o prometeico-umanistica specie nelle sue versioni sette-ottocentesche contro cui soprattutto lotta il Leopardi.

Cosí – in un certo allentamento della tensione intellettuale-fantastica che aveva condotto ai capolavori precedenti – la prosa dimostrativa del Parini ovvero della gloria e dei Detti memorabili di Filippo Ottonieri viene sviluppando considerazioni e riflessioni svarianti dalla filosofia alla morale e all’estetica, e di diversa portata e incisività, ma tutte collegate al filo rosso della demistificazione di miti e illusioni già perseguiti appassionatamente dal giovane Leopardi e ora denudati alla luce di un relativismo puntuale e acutissimo che dimostra l’impossibilità e l’inutilità della gloria letteraria o la caducità di tutte le cose e la decadenza fisica e morale delle persone. Sicché alla fine del Parini, al termine di una fittissima rete di argomentazioni sugli effetti della poesia a seconda dei tempi e della disposizione mutevole degli stessi lettori nelle loro diverse età e nei loro diversi momenti di consonanza o di freddezza (e quindi della impossibilità e inutilità della gloria letteraria), emergerà solo un invito dolentemente virile quasi in contraddizione con l’inutilità dimostrata: «Ma il nostro fato, dove egli ci tragga, è da seguire con animo forte e grande». E dall’Ottonieri si enucleerà una saggezza piú elusiva e dolente, conferma della mai smentita nobiltà leopardiana, ma ben legata al procedere del pessimismo totale delle Operette e del progressivo accrescersi di un relativismo sensistico e materialistico che investe l’uomo in ogni suo aspetto e condizione, ne logora le prospettive retoriche e velleitarie, ne consolida la verità e l’infelicità sia in vita sia dopo la morte.

E se nell’intervallo fra queste due operette, private dell’attrito dialogico e piú direttamente dimostrative e sentenziose (con acquisti di prosa o piú distesa ed analitica o piú condensata in amarissimi pensieri) emerge, per singolare potenza inventiva e poetica (fino a suggestioni misteriose e al raccordo sottile di queste con toni ironici e brillanti, con voci smorzate e suadenti, con l’altissima evocazione poetica del nudo esistere dei morti), il Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, questa stessa operetta non nasce come giustapposizione dell’altissimo coro dei morti e di un corollario del sensistico tema del piacere (quasi pausa e divertissement isolato nello sviluppo delle Operette), ma sgorga dall’attrito sui temi della caducità e infelicità dell’uomo, della distinzione tra vita ed esistenza, presente a suo modo anche nel precedente Parini e che qui vengono estesi nello scandaglio supremo nel regno stesso della morte, nella sua alterità assoluta rispetto alla vita e nella sua comunanza con quella nell’impossibilità della felicità e della «beatitudine». Come affermerà nei suoi ultimi versi il Coro dei morti: «però ch’esser beato / nega ai mortali e nega ai morti il fato». «Mortali» (e dunque viventi come destinati alla morte) e «morti» sono accomunati da questo tragico scacco che rifiuta nettamente ogni vera possibilità edonistica e ogni «beatitudine» ultraterrena, assicura solo «eterna» la morte, mèta di ogni «creata cosa» e definisce a contrasto – con questa inquietante voce del «nulla» che elimina ogni colore pittoresco, ogni variazione eccessiva nell’insistenza ossessiva su poche parole tematiche – l’incomunicabilità fra vita e morte reciprocamente misteriose, suggestive e ripugnanti. Né questo formidabile coro – una delle punte piú alte e importanti della poesia leopardiana – sta a sé – ripeto – rispetto alla parte dialogata fra la voce comica e pettegola di Ruysch, scienziato indifferente e uomo del «comunque esistere», e quella assoluta del morto corifeo, filtrata attraverso il velo della morte, né tutta l’operetta crea solo momenti di poetico allibimento, ma elabora importanti problemi sensistico-materialistici sul momento del morire come graduata cessazione di sensibilità e quindi di vita, sulla futilità inerente alla sopravvivenza dell’anima senza la sensibilità che la fa viva.

Un’ultima ripresa del percorso leopardiano del ’24 si profila – dopo un piú lungo intervallo – con le tre ultime operette (fra ottobre e novembre), varie per taglio artistico e linguistico, e – specie la prima e l’ultima – decisive per le conclusioni negative di tutto il ciclo del ’24, anche se vibranti di tanta luce poetica e di tanta intima tensione di vita, cosí evidenti anzitutto nel bellissimo Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez, che, riprendendo ancora una volta il grande tema di vita-esistenza, lo espande nella voce matura e pensosa di Colombo, uomo d’azione e di fantasia, capace di analizzare, con l’esaurienza distintiva tipica delle Operette, il tedio e l’inutilità dell’esistenza fino a preferire il rischio al «comunque vivere» (al cui mantenimento è caparbiamente proteso il mediocre Gutierrez) e di delineare in un discorso sensibilissimo il fascino della notte stellata o il mare di alghe o gli indizi dell’avvicinarsi della terra (l’aria che si fa tepida e dolce, le coccole fresche e rosse portate dalla riva ancora invisibile, il volo radente degli uccelli) che non vanno intesi come esterna «cornice immaginosa» di un dialogo nudamente speculativo, ma vivono nella coerente pressione del motivo dell’«attesa», unico momento di gioia luminosa e illusoria («ci parrà d’esser beati») prima della ripresa di una vita rassicurata e perciò priva di tensione e di aspettative. L’esistenza è altrimenti cosí squallida che all’uomo esperto e disilluso non rimarrà che vagheggiare, malinconicamente sentendosene cosí lontano, la vita alacre e lieta degli uccelli nella loro incessante mobilità e spensieratezza (l’Elogio degli uccelli, tanto meno profondamente «poetico» e piú «letterario» quanto piú poté apparire invece poetico a quanti credettero nella prosa poetica delle Operette valida solo nella sua piú distaccata eccellenza e maestria stilistico-linguistica) o viceversa non rimarrà che trasferire nella voce solenne e severa e nel linguaggio «orientale» (teso da risonanze bibliche, ossianesche, ortisiane) del mostruoso gallo silvestre la terribile affermazione della sorte tragica degli uomini (presi fra la speranza effimera del mattino e la prosecuzione del giorno con la sua somma di pene che quella rivela tanto piú assurda e ingannevole) fino al sentimento tetro e grandioso del consumarsi di tutte le cose e alla catastrofe finale dello stesso universo: «Tempo verrà, che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta. E nel modo che di grandissimi regni ed imperi umani, e loro maravigliosi moti, che furono famosissimi in altre età, non resta oggi segno né fama alcuna: parimente del mondo intero, e delle infinite vicende e calamità delle cose create, non rimarrà pure un vestigio; ma un silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso. Cosí questo arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi»[6].

Su questa evocazione di squallore e di silenzio assoluto, di morte totale, si chiude il formidabile ciclo delle Operette del ’24, che cosí riafferma la sua natura di negativa diagnosi e demistificazione di ogni sogno e «delirio» della mente umana, spinta fino allo spalancarsi del «nulla», non amato e «religiosamente» adorato, secondo tesi suggestive e inaccettabili, ma toccato dall’esperienza intera del Leopardi come dimensione di fondo dell’esistenza e di quelle «meraviglie» della natura e dei suoi creatori e fruitori, contro cui il Leopardi ha voluto e potuto sviluppare il suo implacabile assalto e la sua disperata ansia di vera vita e soprattutto di «verità» in una grandiosa crisi che ha insieme come logorato le forze di fantasia e di sensibilità impiegate in un cosí importante scavo conoscitivo avvalorato dalla densità della poesia.

Da questo impiego di tutte le sue forze variamente collaboranti in un reciproco temperamento o in un reciproco attrito e unione, il Leopardi uscirà come depresso ed esausto in una fase della sua esperienza che può considerarsi, ben diversamente da quella delle Operette morali del ’24, piú corrispondente alla depressione sentimentale e poetica denunciata poi nel Risorgimento come fase finale del suo processo di esaurimento del «cuore» e termine di contrasto con la ripresa del Risorgimento nel 1828.


1 Quanto ai progetti si pensi già nel ’19 al proposito di scrivere «dialoghi satirici alla maniera di Luciano ma tolti i personaggi e il ridicolo dai costumi presenti o moderni...», all’accenno della lettera del 4 settembre 1820 al Giordani («In questi giorni, quasi per vendicarmi del mondo, e quasi anche della virtú, ho immaginato e abbozzato certe prosette satiriche» (Tutte le op. cit., I, p. 1108): prosette che sono appunto la Novella: Senofonte e Niccolò Macchiavello (esaltazione acre del Machiavelli che, «spasimante della virtú», dopo aver conosciuto la realtà del «mondo», si sarebbe volto, piú utilmente per gli uomini, a insegnare un realistico comportamento non solo politico, ma morale), il Dialogo tra due bestie, p.e. un cavallo e un toro, il Dialogo di un cavallo e un bue (sulla stolta presunzione degli uomini, che il mondo sia stato fatto per loro), il Dialogo Galantuomo e Mondo (dove il «virtuoso penitente» riconosce la lezione antivirtuosa del «mondo», ma di fatto mostra bene di non accettarla se non come conclusione disperata e provvisoria di chi alla «virtú» era, magari maledicendola, disperatamente fedele e dalla sua posizione di «ingenuo e ben consapevole» poteva denunciare la frivolezza e la malvagità del «mondo» con una particolare acutissima diagnosi del mondo falso, interessato, vilissimo, dei «letterati»), il Dialogo... filosofo greco, Murco senatore romano, popolo romano, congiurati, vivacissima rappresentazione dialogata di uomini vili e conformisti e di moltitudini mutevoli in periodi e rivolgimenti politici di non chiaro esito. E ancora in sede di intenzioni si ricordi il pensiero del 27 luglio 1821 dello Zibaldone che punta sulla forza del «ridicolo» per «scuotere la mia povera patria e secolo» in «dialoghi e novelle lucianee» in preparazione, che avrebbero voluto «portar la commedia a quello che finora è stato proprio della tragedia, cioè i vizi dei grandi, i principii fondamentali delle calamità e della miseria umana, gli assurdi della politica, le sconvenienze appartenenti alla morale universale, e alla filosofia, l’andamento e lo spirito generale del secolo, la somma delle cose, della società, della civiltà presente, le disgrazie e le rivoluzioni e le condizioni del mondo, i vizi e le infamie non degli uomini ma dell’uomo, lo stato delle nazioni ec.» (Tutte le op. cit., II, p. 402).

2 Circa la valutazione leopardiana delle Operette nel loro fondo filosofico attivo e organico, si ricordi la lettera allo Stella del 6 dicembre 1826 in cui il Leopardi parla di esse come di «un’opera che vorrebb’essere giudicata dall’insieme, e dal complesso sistematico, come accade di ogni cosa filosofica, benché scritta con leggerezza apparente» (Tutte le op. cit., I, pp. 1273-1274).

3 Quel saggio (introduzione ad un’edizione delle Operette, Bologna 1917) è certo una delle offerte piú fruttuose dell’epoca idealistica al problema leopardiano e costituí il primo vero appoggio ad una valutazione poetica delle Operette che ancora nel ’23 il Croce giudicava «frigidissime» estremizzando l’incomprensione di base desanctisiana (e perdendone alcuni rilievi di rettifica interna molto stimolanti, come la valutazione alta del drammatico Dialogo della Natura e di un Islandese). Ma le indicazioni gentiliane mantenevano un fondo idealistico prevaricante sulla vera comprensione del pensiero materialistico leopardiano e vedevano nel loro ordine uno sviluppo triadico con finale ricostruttivo del «senso dell’animo» (comunque semmai avvertibile solo nel Porfirio e Plotino del ’27 e dunque fuori della zona piú tipica – il ’24 – delle Operette) e vennero, d’altra parte, usufruite da altri troppo nella direzione di «prosa poetica» di tipo rondistico, mentre l’utilizzazione tanto piú valida del Fubini (nel commento del ’33) che cercava e offriva in parte un’interpretazione piú complessa di una prosa sorretta «tanto da ragioni di pensiero che da ragioni d’arte» e sosteneva non l’assenza del «cuore», ma il suo fluire entro una disposizione piú intellettuale e calma, non mancava di rivelare remore vecchie nelle sue pur interessanti oscillazioni fra la comprensione di un inizio unitario e interpretazioni piú divise e distinte, fra posizioni sentimentali-fantastiche e filosofico-artistiche, che successivamente (fuori di una linea nuova che poteva e doveva raddensare le offerte del Fubini, non rarefarle e stemperarle) riportarono uno dei recenti e fini studiosi delle Operette, il Bigi, a una piú generale e livellante valutazione stilistica (sino a parlare di suites linguistico-musicali) su di una posizione d’animo di «distacco sorridente» e di «suprema indifferenza». Né lo stesso Luporini sfuggí ai pericoli della valutazione artistica delle Operette considerandole solo come elaborazione letteraria del pensiero vivo nello Zibaldone, perdendo cosí di vista la pressione e il valore delle Operette agli stessi fini della sua delineazione del pensiero leopardiano.

4 Equivoci e fraintendimenti che si possono cogliere, ad esempio, nell’accenno in una nota del notevole e pur discutibile saggio di L. Blasucci, La posizione ideologica delle «Operette Morali» (in Critica e storia letteraria. Studi offerti a Mario Fubini, Padova, 1970, cfr. p. 626 n. 16) che ha visto in questa mia prospettiva sulle Operette un’eccessiva carica di tensione, magari misurata solo o troppo sul caso particolare del Dialogo della Natura e di un Islandese che io avrei preso come «campione» di tutto il tono delle Operette morali. A me non pare che sia cosí. Quel dialogo è la punta piú intensa (ideologicamente e artisticamente) di una tensione che sottende tutte le Operette morali, senza con ciò negare la base media del loro tono. E certo comunque la presenza di un dialogo come quello (capolavoro non isolato e non isolabile nello sviluppo delle Operette) è cosí importante a rompere la definizione generale del «distacco sorridente» e della «suprema indifferenza» che lo stesso Bigi (cui si devono tali definizioni) fu portato a deprimere di fatto l’importanza stilistica di quel dialogo parlando addirittura di «tirata retorica» per la sublime disperata denuncia dell’Islandese. Debbo solo riconoscere che nell’economia stretta di questo saggio l’esame delle Operette morali risulta troppo raccorciato e forse perciò può indurre piú facilmente a simili equivoci e fraintendimenti.

5 Tutte le op. cit., I, p. 81.

6 Tutte le op. cit., I. p. 158.